Caro Presidente Conte,
mi chiamo Tommaso Z., abito a Cesano Maderno (MB), ho 5 anni e frequento la scuola dell’infanzia Sant’Anna. Pur essendo così piccolo vivo la mia tormentata emotività in modi e forme a volte bizzarre e disperate. Sono ciò che Proust definirebbe “un cavallo senza ginocchia”, una pura esistenza in potenza, insomma, un tentativo. Durante questa pandemia ho sperimentato come la vita sappia tessere trame che dapprima assomigliano a rassicuranti ghirigori in grado di trattenere – come una ragnatela – i dettagli dall’oblio del tempo, ma che poi si intrecciano fino a costruire un ingegnoso e demoniaco intrico dentro il quale ritrovarsi immobili, costretti, vinti. Le scrivo questo pomposo incipit solo per dimostrarle quanto io sia evidentemente migliore di quasi tutti i bambini della mia età, più profondo, più presente a me stesso, più vivo. In un’ipotetica classifica di tutti i bambini di 5 anni nel mondo (circa 69 milioni) io sarei tranquillissimamente nel primo percentile, ciò significa che almeno 68 milioni e 300 mila bambini sono – per qualche motivo – peggiori, a volte orrendamente peggiori di me. Bambini mediocri sparsi in chissà quale angolo di questo geoide galleggiante tra il tempo e lo spazio, chi a Manoppello, chi a Ulan Bator tra i cavalli bradi delle pubblicità di Costa Calessi, chi in un villaggio umido e terrificante alle porte di Varese, un buco del culo di terra compressa e lamiere nel quale le donne allattano i propri mariti, gradasse, mentre i neonati muoiono di fame raschiando con le unghiette dei ditini l’ultimo pezzetto di Simmenthal attaccata alla lattina di amianto. Lo sa presidente? Pochissime parole fanno rima con amianto, una di queste è pianto. Un’altra è espianto. Qualche anno fa – in conseguenza di una clausola chiaramente vessatoria di un discutibilissimo accordo commerciale con la Sammontana, che adesso non le sto qui a spiegare – ho dovuto subire un espianto di fegato, e oggi vivo attaccato al mio fegato artificiale, in questa stanza di ospedale, senza mai poter vedere una luce che non sia quella di Retequattro, sparata a bomba dal mio tv color cigolante e misterioso. Attraverso questa scatoletta di 21x17cm collegata con un cavo di rame e plasticaccia secerno bile e demolisco emoglobina, bile ed emoglobina, 24 ore al giorno, in una catena di montaggio della disperazione epatica. Ha mai provato – caro presidente – a secernere bile e demolire emoglobina, mentre fuori c’à la pandemia e i suoi cari sono al fronte? È un esercizio che le consiglio, se non altro per divertimento, ora che c’è poco da fare. Ma ora provi a immaginare di farlo non col suo fegato bello maschio, calloso, trasudante virilità e slancio, ma con un apparecchietto posticcio di latta appoggiato al comodino, vicino al brick di brodo di pollo e a un numero consumato di Medioevo e valvole, aperto mollemente a pagina 2. È così che vivo, ammesso che questa possa chiamarsi vita. È la mia immotivata sensibilità a permettermi di tirare avanti, questa spiccata intelligenza che la genealogia genetica non riesce a giustificare, figlio – come lo sono io – di una casalinga erbivora e di un cavaliere provenzale. Ma vado avanti, vado avanti, trascinandomi con i gomiti sulla montagna ontologica – come un Sisifo orgogliosamente disabile. Non mi lamento. Lo sa presidente? Pochissime parole fanno rima con lamento, una di queste è fallimento. Considererei un fallimento personale il dover cedere alla disperazione, lanciandomi vigoroso e altèro dalla rupe Tarpea di questo davanzale d’ospedale. Sarebbe una sconfitta, per me, per ciò che rappresento e per la comunità dei credenti, della quale mi onoro di far parte. Per questo le chiedo una sola cosa. Non è vero, non le chiedo nulla, le sottopongo piuttosto una proposta, una possibilità di redenzione, da valutare serenamente tra noi gentlemen della prima ora: parli alla nazione – l’ha già fatto almeno un paio di volte, sa farlo – convochi la stampa, le televisioni, i blogger, e annunci il fallimento di tutte le sperimentazioni dei vaccini ancora in lizza, l’inefficacia di tutte le cure e di tutti i protocolli medici. Dica, semplicemente, che questa generazione non può e non potrà nulla contro il virus, e che dovremo convivere (o commorire?) con la pandemia, per sempre. Non le sto chiedendo nulla di immorale, di inaccettabile. A guardar bene, le sto solo chiedendo di equiparare il destino di tutti gli italiani al mio, a quello di un bambino superdotato di 5 anni, privato della speranza di cura, di salvezza, di una felicità diversa da quella squallida e tristemente transitoria della fama letteraria e della gloria universale. Dica agli italiani, e soprattutto a quel 98% di bambini peggiori di me, che dovranno morire cercando di inseguire un respiro affannato, infilati dentro una capsula appannata di plexiglas industriale, come cani agonizzanti nella luce satura di certi tramonti cispadani. Glielo dica ghignando, magari, cosa le costa? Esageri, sia cinico e bieco come solo un condottiero sa essere, esondi, strabordi con gli avverbi di modo, miri all’ipotalamo, eiaculi tragicità dai suoi occhi lucidi e ballerini. Lo faccia perché è giusto, e non perché glielo sto chiedendo.
In caso contrario, il macchinario che ho ideato personalmente e di cui allego schema di funzionamento inizierà a spingere le sue turbine e ad azionare le lame a seghetta sulla carne cedevole del quinquenne che sono e mi segherà a metà all’altezza dello stomaco, e il video dell’operazione sarà trasmesso in diretta streaming su Facebook con il titolo IL PRESIDENTE CONTE RESPINGE LA SUPPLICA DI UN BAMBINO DI 5 ANNI E LASCIA CHE SI SQUARTI IN DIRETTA FACEBOOK.
Si guardi dentro, presidente, renda degna la sua esistenza, e consideri che se qua dentro non mi resta nulla, là fuori ho ben oltre 35 follower disposti a tutto.
Aspetto la Sua risposta almeno lo posso dire ai miei amici.
Grazie, Tommaso