Non credo di aver mai corso in un posto più incredibile: montagne a strisce colorate a destra, subito sotto un fiume circondato da alberi da frutta, a sinistra uno scenario da montagne rocciose, in mezzo una stradina in terra battuta, morbida e scorrevole.

Ero in Armenia, in un posto imprecisato in mezzo al nulla, perché io quest’estate ho deciso di fare un giro in Georgia e Armenia, come i fricchettoni.

E insomma, quella mattina io e Marzia usciamo per la solita corsetta, perché noi corriamo sempre, anche in vacanza, perché siamo malati di mente, ma questa è un’altra storia. Prendiamo quella bella stradina che va verso la campagna e dopo poche centinaia di metri una contadinella ci regala una pesca. Brava Armenia, grazie per la pesca.

Continuiamo a correre, fermandoci ogni tanto per fare due foto e qualche video per fare i gradassi su Strava. Tutto bello. A un certo punto, dopo qualche chilometro, la strada curva e in lontananza inizia a salire, allora ci diciamo vabbè corriamo fin lì poi torniamo indietro. Arrivati alla base della salita, scorgiamo in alto sulla destra, una specie di ammasso scuro, sembravano rocce o qualcosa del genere, allora facciamo altri 30 metri per vedere meglio. Non erano rocce, erano pneumatici. Boh chissà che ci fanno sti armeni con cento pneumatici accatastati lassù, in questo fantastico buco di culo di posto. Mentre pensavamo a questo, da lassù sentiamo delle grida: “Froaksfjkj sdhfskh fkshfh!”, o forse “Cgkhdjkfh jlskdfj!” non ricordo bene. Vabbè, penso, saranno contadini che rompono le palle. Comunque ci guardiamo e ci voltiamo per andarcene. Appena facciamo due passi per tornare indietro, da lassù gridano più forte, e in qualche modo capiamo che non vogliono che ci muoviamo.

Ok, ci fermiamo.

Tranquilla Armenia, che vuoi esattamente? Dopo qualche secondo vediamo correre giù un uomo. Ha un fucile in mano. Cazzo è un militare. Come per un riflesso condizionato da serie Netflix, alziamo le mani e urliamo “Tourist, italian”. Il tipo arriva giù sudato come un montone sudato, col fucile in mano e una certa preoccupazione in faccia. Ci urla di nuovo “Fkhkhhn sefsf sdfsd!” ed evidentemente non capisce nessun’altra lingua viva oltre alla sua, che non sappiamo che lingua sia. A quel punto ci sequestra i cellulari. Se li infila nella tasca mimetica, con un gesto secco, quasi rabbioso. Cazzo. L’impotenza pura. Mi caco in mano. Marzia pure, anche se in modo diverso: lei di solito è quella che mantiene il sangue freddo, la parte razionale della coppia, ma qui va completamente nel pallone. Panico totale, occhi sbarrati, piagnucola, chiede scusa. Mi tocca fare il ruolo di quello equilibrato.

Il soldato ci fa sedere su una pietra, con un cenno brusco del fucile. Io e Marzia ci guardiamo: ci sentiamo in un film. Lui intanto si mette a parlare al telefono con qualcuno lassù, gesticola, sembra indeciso, come se nemmeno lui sapesse esattamente cosa fare con due deficienti in pantaloncini e maglietta fosforescente. Poi ci indica un avamposto uguale al loro, ma dall’aktra parte della collina, a 300 metri, non di più. E noi ci eravamo passati praticamente sotto. Era l’avamposto dell’Azerbaijan. Ci dice proprio “A-zer-abi-jan!” con ogni sillaba più preoccupata di quella prima. Ma tua guarda alla Madonna dove siamo finiti.

Dopo un po’ scende un altro, più giovane. Nel tentativo di stemperare la tensione tiro fuori la pesca che la contadina ci aveva regalato. Gliela porgo come fosse l’ultimo gesto di pace rimasto all’umanità. “Tieni. Pesca”. Sarebbe stato fico se m’avesse risposto “So cos’è una pesca”. Sorrido come un idiota. Poi, per sembrare amichevole, comincio a citare tutti i nomi che mi vengono in mente legati all’Armenia. Uno solo: “Mkhitaryan. Football. Inter.” Stop. Silenzio. Il giovane mi guarda come se avessi appena recitato il menù di un ristorante thailandese.

Passa mezz’ora così. Finalmente arriva una camionetta. Ne scendono altri quattro soldati. Uno dev’essere il superiore: lo capisco perché ha un portamento più rigido e perché gli altri si aggiustano la divisa, recuperano il fucile appoggiato a un masso e si mettono in posizione. Noi due seduti come pupazzi, a metà tra la gita scout e Guantánamo. Il capo GRAZIECAPO ci riconsegna i cellulari, mandiamo subito un messaggio ai nostri amici che aspettavano il nostro ritorno dalla corsa e si saranno già immaginati scenari di morte “abbiamo avuto un problema ci hanno fermati per dei controlli”, per non farli preoccupare troppo ma neanche troppo poco. Avvertono l’ambasciata, stringiamci a coorte. Quando l’ho saputo mi sono visto sul TG2 a ringraziare la Farnesina o addirittura la Meloni per averci riportati a casCOL CAZZO.

Ci portano via. Prima però ci fanno passare dalla guesthouse a recuperare i passaporti – sempre col fucile in mano, come se potessimo improvvisamente ribellarci, soggiogarli e prenderci le loro donne.

[Scena madre: io che entro in casa col militare dietro e incontro il mio amico che sta uscendo dal bagno e gli dico STE,NON DIRE NIENTE NON FARE NIENTE CI SONO I MILITARI NON PREOCCUPARTI POI TI DICO CI PORTANO IN CASERMA CIAO e lui che mi guarda così à §].

Poi ci caricano e dopo mezz’ora di curve arriviamo a una caserma. Un edificio grigio, anonimo, a trenta chilometri da lì.

Ci interrogano. Nessuno parla inglese, nessuno parla nulla. A gesti ci spiegano la situazione: abbiamo passato il confine. Non uno qualsiasi, quello con l’Azerbaijan. Di quasi un chilometro. E Armenia e Azerbaijan sono in guerra. Non “tensione diplomatica” o “non mi hai fatto niente faccia di serpente”: guerra vera, coi colpi di mortaio, le trincee, le mine. Uno dei soldati ci fa proprio il gesto con le mani: pum pum, ci avrebbero sparato. Oppure, nella versione ottimista, ci avrebbero arrestati e tenuti lì per giorni. In pratica, ci hanno salvato, perché se ci avessero visto prima quelli, ci avrebbero arrestati per immigrazione illegale, spionaggio o semplicemente perché avrebbero preso questo pretesto per denunciare un atto ostile dell’Armenia.

Ora io penso: ma siete in guerra con quelli che tra l’altro sono più forti di voi e non segnalate il confine più pericoloso del mondo? In realtà ripensandoci dopo, il segnale c’era. Un cartello con scritto STOP. Cazzo Armenia, ci sarà una differenza tra un dare precedenza e la porta dell’inferno? Vuoi metterci un cazzo di muro, un fucile disegnato, il segno del kaputt? No, stop. E un po’ di filo spinato accatastato ai lati della strada.

Poi passano ai controlli. Ci prendono i cellulari, ci aprono tutte le foto, i video, le chat WhatsApp. In Chiedono tutto: lavoro, parenti, viaggi del passato, itinerario dettagliato. E soprattutto: “Perché siete venuti?”. L’opzione “siamo venuti a cazzeggiare perché il volo costava meno che andare a Campobasso” evidentemente non era prevista dal protocollo. In un impeto di panico creativo, dopo che io cerco a fatica di spiegare che lavoriamo nella comunicazione, Marzia spara un “Journalist!” MA COME JOURNALIST CHE CECILIA SALA L’HANNO PORTATA VIA DALL’IRAN UN QUARTO D’ORA FA??? Vabbè, ripiego su “Software”. Programmatori, siamo ingegneri, ok, umiliante forse, ma cosa c’è di più pacifico e inoffensivo di un ingegnere? Software. Dopo software c’è solo “Affettiamo le zucchine per la Coop”. Capiscono. Scampata pure questa. Poi ci chiedono proprio “Ma chi vi ha detto di venire?”. Penso: ma come chi? Ma non funziona così, siamo venuti così, perché ci andava, il turismo funziona così. Non faccio in tempo a dire niente che Marzia tira fuori il jolly: “ME L’HA DETTO UNA TIPA ARMENA CHE MI FACEVA LE UNGHIE 10 ANNI FA!”. Marzia, PORCA TROIA, ci chiedono chi è come si chiama, ora come la andiamo a ritrovare? Ma poi pensa se questa si ritrova una chiamata dell’esercito armeno “Perché hai mandato sti due in Armenia? Cosa nascondete? Dobbiamo uccidervi? Lo smalto era semipermanente?”. Lascio cadere la cosa, sparando un “ci piace l’Armenia”. Butta là, meglio ruffiani che spie venute dal freddo.

Dopo due ore arriva un interprete. Cioè, un tizio del villaggio che vent’anni fa ha è passato per l’ Italia. Parla un italiano strano, con accento dimenticato, ma abbastanza buono da capirci. Per fortuna è amichevole, ci fa quasi da avvocato difensore. Rispeghiamo tutto, meglio.

Alla fine ci dicono di nuovo cosa abbiamo rischiato. Ma lo fanno con un tono diverso: “Noi amici. Non come… quegli altri.” L’interprete traduce, ma non ce n’è bisogno: il gesto del pollice, il disprezzo, parlano chiaro.

E poi succede l’improbabile. I soldati vogliono scusarsi per il disturbo. E festeggiare con noi. Il mio primo pensiero, da occidentale arido e diffidente, è stato: “Ecco, ci sodomizzano contro un muro, ci fanno – tecincamente –  la festa”. Invece no. Ci offrono una Fanta. Arancione, tiepida, comprata in un negozietta là fuori, ma a quel punto la miglior bevanda della mia vita

Ci riportano poi alla guesthouse, più rilassati. In macchina ci raccontano, a gesti e frasi spezzate, della guerra con l’Azerbaijan. Una guerra che da noi non se la fila nessuno, ma che un anno e mezzo fa ha portato alla deportazione di centomila armeni dal Nagorno-Karabakh.

E lì ti rendi conto di due cose: l’Armenia è un paese sfigato. Da un secolo va avanti a fatica tra genocidi, invasioni, guerre, deportazioni. Non per qualche ricchezza da rubare, ma perché sta lì, in mezzo alle rotte del gas, del petrolio, del commercio. Sotto la Russia, di fianco alla Turchia e all’Azerbaijan, sopra all’Iran. Sta semplicemente in mezzo alle palle, del mondo. Le guerre si fanno per cose così, non per ideali, ma nemmeno per odio. L’odio viene dopo, prima ci sono delle cazzate, tipo i confini e i pezzetti di terra su cui tirare dei cavi e dei tubi.

La seconda è che il confine tra normalità e guerra è così sottile al di fuori del nostro pezzetto di mondo che quando ti ci ritrovi dentro ti tremano le gambe, il culo e le certezze, e non per la percezione del pericolo – sì ok anche – ma soprattutto perché non ti capaciti del fatto che le cose possano accadere senza che tu possa dire “Ehi ma io chiamo un avvocato”, “Ehi ma io una volta ho stretto la mano a Nanni Moretti!” “Ehi ma io ho pagato tutte le bollette dell’acqua!”. Niente, non serve niente: quello che sei, quello che fai, i diritti che hai. Sei una cosa, manovrata da gente che non conosci per motivi che non capisci, e che nella vita reale – quella che vede te e il soldato scambiarvi una pesca – non ha alcun senso.

«Il primo cretino che, avendo recintato un terreno, ebbe l’idea di dire questo è mio e trovò persone abbastanza semplici da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, miserie e orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare quest’impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno!». J.J.Rousseau

PS: Tre giorni dopo della mia (ds)avventura, quel pagliaccio di Trump ha annunciato in pompa magna la firma del Trattato di pace Armenia-Azerbaigian, un accordo bilaterale che sancisce la creazione del corridoio denominato Trump Route for International Peace and Prosperity (TRIPP), che collegherà l’Azerbaigian con l’exclave azera di Naxçıvan (proprio quella in cui ero entrato io) attraverso il territorio armeno, mantenendo la sovranità formale armena ma con DIRITTI DI SVILUPPO CONCESSI AGLI STATI UNITI PER 99 ANNI e la possibilità per l’Azerbaijan di continuare a fare i propri comodi in terra armena. Tra l’altro l’accordo esclude il diritto del ritorno degli armeni sfollati nel Nagorno-Karabakh. Bella la pace.