Ministro Piantedosi, proviamo a fare un ragionamento. Lo so, non è la tua più spiccata abilità, ma proviamoci.

Mettiamo il caso che una donna – chiamiamola Jasmine – metta al mondo un bambino – chiamiamolo Abdou – e che entrambi vivano in un posto di merda – per comodità chiamiamolo Foggia. Scherzo, chiamiamolo Africa, tanto va bene quasi tutta. A un certo punto a Jasmine viene in mente un pensiero: “Io e Abdou viviamo indubitabilmente in un posto di merda, mangiamo poco e male, rischiamo la vita ogni giorno per la guerra e la criminalità, non abbiamo niente da fare se non cercare di sopravvivere, senza nessuna speranza che questa situazione possa cambiare; io ormai sono anziana, ho 19 anni e me ne restano da vivere sì e no 15, ma Abdou è in piena pubertà, ha 4 anni, e ho il fondato dubbio che non abbia molte probabilità di essere felice. Quasi quasi lo mando in Europa a cercare fortuna. Lo so non sarà facile e nemmeno probabile, ma tanto meglio questa piccola speranza che niente”. A un certo punto arrivi tu, il ministro Piantedosi, uno che, come le migliori seghe, si è fatto da solo, schivando le saette mefistofeliche degli acari della polvere, le tempeste del metabolismo e certe domeniche di pioggia davvero davvero noiose. Arrivi tu e dici a Jasmine: “Eh no, madre snaturata, non si manda a morire un figlio su una barchetta in mezzo al mare”. Al che Jasmine, donna di grande morigeratezza, pensa tra sé e sé: “Ah fijo de Mazinga, guarda che l’ho mandato in mare perché qua morire non è una questione di probabilità, perché la probabilità è una cosa da ricchi, ma di quando e di come: martedì prossimo per la polmonite, tra due anni per la fame o tra sei mesi per una coltellata”. E tu allora ribatti severo: “eh ma la vita è una cosa sacra, me l’ha detto coso”.

E allora interviene – se permettete cari signori – il simpatico Abdou buonanima: “Vedi Piantedosi, scusami se ti chiamo Piantedosi ma ti chiami così, io avevo 4 anni appena compiuti, vivevo in una baracca impastata con merda di vacca e laminato di amianto d’importazione francese, la mattina mi svegliavo alle 5 perché suonava stocazzo e via di slancio in una nuova giornata a raccogliere lattine usate nella discarica più bella del reame. Il pomeriggio mi vedevo con gli amici per giocare a dissenteria, poi la sera cercavo il Pokémon – vabbè era sempre lo stesso – nel battiscopa di lamiera lucente della mia cameretta, mia nel senso di mia e dei miei stimati concittadini di questo pianeta. Beh, Piantecoso, 4 anni non sono tanti – mi dicono – ma provaci tu a fare 4 anni così, sapendo di doverne fare così altri 15, 20, nella peggiore delle ipotesi, 25! Guarda che mica mi pagavano per interpretare il ruolo dell’essere umano vivo nel buco del culo del mondo! Non avevo nemmeno chiesto io di nascere, dev’essere stato tipo un bonus, un ricollocamento, una scommessa. E allora sai che ti dico? Se mia mamma m’avesse chiesto il permesso di spedirmi a tentare la sorte su una barchetta in mezzo al mare, io le avrei detto non sì, ma cazzo sì! Ma pure su una barchetta nel mare contro il Real Madrid! Bendato, sui tacchi. Perché sai cos’è che non sai Pianterose? Non sai che la vita, di per sé, non vale niente, un cazzo, nulla. La vita vale per quello che ci metti dentro, per le speranze che hai, per i ricordi che ti ammucchi in testa. Se ci metti dentro solo merda, la vita è una merda. Se ci metti pensieri belli, ricordi belli, speranze belle, allora forse vale la pena. Questo tu non lo sai, ma dovresti pensarci. Ti riguarda. Tu cosa ci hai messo dentro? Cosa vedi quando chiudi gli occhi e stai per addormentarti? A cosa pensi quando fissi orgoglioso il tuo battiscopa e poi guardi di sfuggita la mia foto in bianco e nero sul giornale? Di cosa hai riempito la tua vita Piantedosi? Ascoltami, io ci sono già passato, parti, lascia tutto e parti. La vita è ciò che ci metti dentro, butta tutta la merda che hai in testa e nello stomaco e parti, se ti dice culo muori a faccia in su, così vedi quella roba strepitosa piena di pallette luminose, grandi spazi neri e poi di nuovo luci, tantissime piccolissime luci, quella che ho visto io”.